IL MESSAGGIO E’ IL FINE

parlamento-in-ferieUn governo ci vuole. Ma intanto la cosa da fare, fino a quando il nuovo presidente della Repubblica con tutti i suoi poteri, compreso quello di sciogliere le Camere, potrà rimettere in marcia la politica nazionale, è di legiferare. Non è affatto vero che senza un governo in piena funzione le Camere non possono fare le leggi: il loro è un potere autonomo, e anzi sarebbe bene che finalmente si legiferasse non per via di decreti-legge fatti dal governo, ma con leggi veramente generate dal Parlamento. Per questo occorrerebbe che tutti i gruppi parlamentari si mettessero alla stanga, che lavorassero sei giorni alla settimana e in pochissimo tempo dessero al Paese le leggi di cui il Paese ha urgente bisogno, e che non è qui il caso di ricordare. Come hanno scritto i “Comitati Dossetti” ai parlamentari del centrosinistra esortandoli a questa scelta, ben prima che Grillo ne proponesse una variante sovversiva (“meglio stare senza governo”) ciò “farebbe per la prima volta del Parlamento il luogo privilegiato e più d’ogni altro visibile della politica e della vita democratica”. Continua a leggere

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L’invito del Presidente

da Il Manifesto del 21 marzo 2013  di Umberto Allegretti

allegrettiDopo l’iniziativa condotta in porto dal centrosinistra con la nomina alla presidenza delle Camere di due  personalità nuove e dotate di notevole statura istituzionale,  le prospettive sulla situazione parlamentare e di governo sono indubbiamente migliorate rispetto ai giorni in cui  anche il miglior quotidiano d’un paese discreto e modesto e che ha per l’Italia rispetto e simpatia come il Portogallo (non si dice la  dura Germania!) poteva intitolare, confermando ancora una volta la gravità della percezione del nostro paese nell’ambito dell’Unione Europea,  la situazione italiana come posta “sotto il segno della decomposizione politica” e  scrivere che “il sistema politico continua a tendere verso la disintegrazione”.

L’evoluzione delle prospettive non è certo con questo ancora chiara neppure sotto il profilo strettamente costituzionale. Vista però da chi in questo momento è fuori dall’Italia e perciò è forse aiutato da un’utile distanza a discernere le linee essenziali del problema al di fuori del troppo confuso dibattito mediatico, non è però indecifrabile come appare dalle fonti di informazione nazionali. Continua a leggere

La morte di Teresa Mattei

398961_10151319916292215_33837001_nE’ morta a 92 anni, Teresa Mattei. 

Ho conosciuto Teresa Mattei e ho fatto un comizio con lei a Pisa nella campagna elettorale per il referendum costituzionale del giugno 2006, quando la destra berlusconiana voleva far scempio della Costituzione e non vi riuscì. Teresa Mattei aveva già 85 anni, ma la Costituzione la voleva difendere, perché ne era madre; era stata a 24 anni deputata comunista alla Costituente, una delle ventuno donne sui 556 deputati che avevano fatto parte di quell’assemblea.

Era la più giovane di tutti, e per questo Vittorio Emanuele Orlando che, essendo invece il più anziano, aprì la prima seduta del 25 giugno 1946 (“L’Italia non ha ancora finito di essere l’Italia – disse – e come italiani noi abbiamo ancora qualche compito assegnato a noi nella storia del mondo”) la chiamò a salire sugli scranni alti come segretaria di Presidenza. In questa veste, con una delegazione dell’Assemblea, il 27 dicembre 1947 presentò al Capo provvisorio dello Stato il testo della Costituzione da firmare: “una ragazzina – come ricorda – che per la foto con De Nicola alla consegna della Costituzione aveva addosso il vestito di sua madre e le scarpe scalcagnate”.

I deputati alla Costituente, nell’Italia povera del dopoguerra, erano infatti poveri; per questo ad esempio – e fu una benedizione – i cosiddetti “professorini” – Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira – non potendo permettersi altro, andarono a vivere tutti insieme nella casa delle signorine Portoghesi in via della Chiesa Nuova 14, formando quel singolare sodalizio che si chiamò poi, per celia, “comunità del Porcellino”. Che restassero poveri, ci aveva pensato la stessa Teresa Mattei, perché come segretaria della Presidenza fu tra quelli che dovevano stabilire i criteri per lo stipendio dei costituenti. Insieme con Giuseppe Di Vittorio andò allora su una vecchia macchina della CGIL in giro per fabbriche ed uffici per vedere quale fosse il salario medio degli operai e degli impiegati di allora, e propose che per non allontanarsene l’indennità parlamentare fosse di 42.000 lire al mese. Questa proposta non fu molto popolare tra gli onorevoli e alla fine – ma con non minore sobrietà – il salario dei deputati fu fissato a 80.000 lire. Se la Costituzione rassomigliava all’Italia e ancora oggi è “la più bella del mondo”, è anche perché è stata fatta da deputati poveri che stavano dalla parte dei poveri.

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AGLI ELETTI E ALL’ELETTORATO DEL 24-25 FEBBRAIO

I COMITATI DOSSETTI PER LA COSTITUZIONE   E ECONOMIA DEMOCRATICA

NON VANIFICARE LA SOVRANITA’ POPOLARE

 

I Comitati Dossetti per la Costituzione ed Economia Democratica si rivolgono ai due soggetti politici che in questo momento hanno in mano il destino dell’Italia: gli eletti al Parlamento del 24-25 febbraio e gli elettori che nell’occasione hanno trasformato la volontà popolare in rappresentanza politica.

Agli uni e agli altri rivolgiamo il pressante appello a salvaguardare la Costituzione come condizione per far ripartire l’economia e salvare il Paese.

È necessario prendere atto che le divisioni presenti nella nostra comunità nazionale e tradottesi ora nelle divisioni della rappresentanza, sono molto profonde. Esse derivano da una disparità sempre maggiore nella situazione economica e nelle prospettive di vita tra anziani e giovani, tra ricchi e poveri, tra quanti galleggiano nella crisi e quanti ne sono sommersi, e attengono anche a diversità culturali e morali sempre più accentuate sul modo di concepire la sfera pubblica, sul rapporto tra legalità e arbitrio, sui modi di vita e di sviluppo, sul rapporto con l’ambiente e i beni comuni e sulle stesse forme della vita democratica. Queste differenze che attraversano la nostra società sono purtroppo ignorate dal sistema informativo-pubblicitario dei media, forse non ingiustamente disertati da alcuni, sicché appaiono col voto come sorpresa; in effetti tali contraddizioni ci sono e possono essere ricomposte solo attraverso conversioni e ricostruzioni di lungo periodo, e non attraverso affrettati espedienti politici.

In ciò risiede la difficoltà di fare un governo, e non semplicemente nella mancanza di responsabilità e di misura.

In questa realtà di divisione, una sola cosa abbiamo comune, ed è la Costituzione. Sarebbe un gravissimo errore avviare il processo di uscita dalla crisi cominciando con mutamenti costituzionali che semmai vanno riservati a una fase più avanzata, come altrettanto erroneo sarebbe il perseguire una semplificazione del quadro politico mediante leggi elettorali ancora più maggioritarie e discriminanti del “porcellum”, con cadute antiproporzionaliste e improvvisazioni presidenzialiste.

La salvaguardia del quadro costituzionale è essenziale non solo per non disperdere un patrimonio di valori condivisi e preservare la legittimazione etica dell’ordinamento, ma anche perché è condizione e garanzia di sicurezza per tutti, democratici e Cinque stelle, destra e sinistra, inclusi ed esclusi dalla rappresentanza parlamentare. Continua a leggere

Se non è paglia di un solo inverno

di Raniero La Valle  –  (dal Manifesto del 1 marzo 2013)

Cerchiamo di spegnere l’audio di tutte le grida, i “non possumus”, i pesci in faccia dei primi giorni, e cerchiamo di vedere a quali condizioni sarebbe possibile un governo fatto dalla coalizione che ha vinto le elezioni e reso possibile dai voti delle Cinque Stelle.
Che esso si possa fare dipende dalle risposte a due domande preliminari.
La prima è se Grillo pensa solo a incrementare i suoi voti per un maggiore e travolgente successo alle prossime elezioni, oppure se già ora vuole usare la sua forza per il governo e il cambiamento del Paese.
La seconda è se sia Bersani che Grillo manterranno la loro diagnosi di un disastro imminente e distruttivo per il Paese, a meno che non si facciano cose grandi, inconsuete alla politica, e mutamenti radicali, oppure se l’uno si farà risucchiare nel già visto delle triangolazioni tra i palazzi romani e l’altro si farà dominare dal mito del “tutti a casa” o, come si diceva una volta, del “tanto peggio tanto meglio”. Continua a leggere

Gesti moderni di un Papa antico

di Raniero La Valle  –  (dall’Unità del 1 marzo 2013)

Il Papa che se ne è andato modernamente in elicottero, secondo il medievalista Jacques Le Goff, ha compiuto con le sue dimissioni un gesto di rifiuto della modernità.
Abdicando egli se ne è ritirato, quasi a dire che la Chiesa non è compatibile con la modernità se non al prezzo di snaturarsi, o che in ogni caso egli non aveva più le forze come papa di reggere la sfida di un’età moderna da lui globalmente inscritta nel girone del relativismo. Se questo era il suo giudizio, se questo era il problema che egli voleva lasciare aperto alla Chiesa, giustamente se ne è andato: perché un papa deve essere contemporaneo alla sua Chiesa, non può essere amoderno o premoderno.
Un papa del terzo millennio non può prendere in mano una Chiesa a cui consideri avversi i “segni del tempo”, e guidarla come se il Concilio non ci fosse stato, o peggio come se esso avesse devastato la Chiesa attraverso la manipolazione dei media, come ha sostenuto nell’ultimo suo discorso al clero romano.
Il disagio del Prefetto Ratzinger prima, e del Papa Benedetto poi, rispetto al Concilio Vaticano II, la contraddizione irrisolta che forse lo ha portato all’abbandono, si sono giocati proprio sul rapporto del Concilio con la modernità. Il Papa ha riconosciuto nel suo primo discorso alla curia del Natale 2005, che su quel punto nel Vaticano II si era prodotta una vera discontinuità; ma questo riconoscimento entrava in conflitto con lo Continua a leggere