La società  senza diritti vuole la sua Costituzione

I Comitati Dossetti per la Costituzione nel referendum costituzionale

All’avv. Francesco Di Matteo

Presidente del Comitato del No di Bologna

Caro Francesco,

con l’iniziativa popolare che abbiamo avviato in Cassazione per il referendum oppositivo alla nuova Costituzione del governo, la corsa per decidere della sorte della democrazia parlamentare in Italia è giunta all’ultimo tratto.

Sul piano militante i cittadini dei Comitati del No, i Cattolici del No e molti altri sono già in campo. Il loro giudizio è già formato e chiaro: il Potere cerca di sgombrare ogni ostacolo dinnanzi a sé, di togliere di mezzo ogni porta tagliafuoco per dilagare e governare incontrastato. Ci sono riusciti gli ultimi residui della vecchia classe politica, comunque mascherati col nuovo, approfittando di una legge elettorale ufficialmente incostituzionale che già aveva distrutto il sistema politico italiano, e innescando un processo extra partitico di presa del potere che ha permesso a un cittadino e al suo gruppo di far proprio un vecchio partito già gonfiato in Parlamento da un enorme premio di maggioranza, pretendendo “primarie aperte” in cui hanno votato tre milioni di persone quando gli iscritti a quel partito erano 500.000.

Tutto questo è chiaro. Ma i Comitati Dossetti per la Costituzione possono fermarsi a questo? Non dovrebbero porsi domande più profonde e chiedersi come sia potuto accadere che un pur rovinoso ma contingente dissesto del sistema politico abbia permesso l’attacco alle strutture stesse dell’ordinamento parlamentare, sulla scia di una sorta di silenzio-assenso del sistema culturale mediatico e informativo del Paese?  Non si deve cercare il motivo di una crisi più vasta,  che  spiega l’apparente successo di Renzi, al di là delle sue spregiudicate capacità di manovra politica? Continua a leggere

Il suicidio dell’Unione Europea

di Luigi Ferrajoli

  1. L’assurda architettura dell’Unione Europea: una federazione in senso giuridico senza unità politica né democrazia – Stiamo assistendo al fallimento di quella che è stata la più straordinaria e promettente innovazione istituzionale del secolo scorso: il progetto di integrazione europea. Questo fallimento è in realtà un suicidio, dato che è stato provocato in gran parte dalle politiche autolesioniste dell’Unione Europea. E’ questo il paradosso che stiamo vivendo: un paradosso ben espresso dal titolo di un recente pamphlet di Jan Zielonka, Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea[1].

Per comprendere le ragioni di questo fallimento-suicidio occorre muovere da un dato di solito misconosciuto. Di solito si lamenta la mancata integrazione istituzionale dell’Europa: il fatto che l’Unione Europea, benché politicamente integrata, non sia ancora, sul piano giuridico e istituzionale, una vera federazione. Io penso invece che questa tesi vada ribaltata. L’attuale ordinamento europeo ha già, a mio parere, i tratti giuridici e istituzionali che sono caratteristici di un ordinamento federale. Sul piano politico, invece, esso è ancora una confederazione, difettando di unità politica, sia al vertice che alla base, nonché dei tratti distintivi della democrazia, sia dei requisiti della sua dimensione rappresentativa o formale che di quelli della sua dimensione costituzionale o sostanziale. E’ a questo assurdo assetto istituzionale che deve farsi risalire gran parte delle cause della crisi in atto.

In che cosa consiste, infatti, una federazione? Di ‘federalismo’ e di ‘federazione’ sono state date innumerevoli definizioni, così come sono innumerevoli ed eterogenei gli ordinamenti che, al di là del modello federale inaugurato dagli Stati Uniti, si sono qualificati come “federazioni” o “Stati federali”, nonché gli aspetti e le dimensioni nelle quali l’espressione “federalismo” può essere declinata[2]. Ci sono però due tratti distintivi degli ordinamenti federali che li distinguono, sul piano giuridico, da un lato dalle semplici alleanze o confederazioni di Stati e, dall’altro, dagli Stati nazionali. Il primo di questi tratti è la distribu­zione delle funzioni di governo e delle relative competenze tra istituzioni dello Stato federale e istituzioni degli Stati federati e la comunanza delle funzioni e delle competenze federali a tutti gli Stati membri o federati. Il secondo tratto distintivo, connesso al primo e ancor più importante, è la pro­duzione, ad opera delle istituzioni federali, di norme e decisioni che en­trano direttamente in vigore negli ordina­menti federati senza la necessità della loro ratifica parlamentare, richiesta invece per la recezione negli ordinamenti statali delle norme dettate dai trattati internazionali[3]. Il primo connotato, cioè l’articolazione multilivello delle funzioni e delle competenze, distingue le federazioni dagli stati nazionali. Il secondo, cioè la diretta potestà normativa delle istituzioni comuni, le distingue dalle semplici alleanze o confederazioni. Per questo possiamo dire che il federalismo è sempre una questione di grado. Precisamente, diremo, il grado di federa­lismo di un sistema politico si misura dalla quantità e dalla qualità delle funzioni pubbliche affidate a istituzioni federali, cioè comuni a tutti gli Stati federati, e perciò dalla quantità e dalla qualità delle fonti normative anch’esse comuni a tutti gli Stati federati perché, appunto, di livello federale. Continua a leggere

Sul cambiamento costituzionale

I Comitati Dossetti per la Costituzione prendono atto con dolore – nelle parole del loro presidente Raniero La Valle – dell’abbandono dell’ordinamento costituzionale del ’48 per un nuovo assetto di potere di cui lo stesso presidente del Consiglio dichiara che dovrà in seguito verificarsi la validità.

Ancor più motivo di rammarico è la spaccatura del Parlamento e del Paese mediante la quale la riforma viene portata a termine, facendo venir meno, con la Costituzione del ’48, l’unica grande risorsa di unità ancora esistente, in un momento in cui tutto porta alla divisione nell’Italia della rottura tra le generazioni, in un’Europa ormai fatta a pezzi da muri di divisione e reti di sbarramento e nel Mediterraneo dove sono in atto sanguinosi e dilaganti conflitti.

Il dott. Matteo Renzi ha inteso mettere il cambiamento costituzionale dietro il riparo delle grandi figure di La Pira e Dossetti. Certamente “l’attesa della povera gente”, di cui parlava La Pira, non era l’attesa che i poveri venissero esclusi dalle istituzioni rappresentative mediante sistemi elettorali miranti all’emarginizzazione dei poveri, delle loro organizzazioni e delle loro forze politiche, in una società sempre più drammaticamente marcata dall’esclusione e con il dichiarato obiettivo di un potere a partito unico. E quanto a Dossetti negli anni ’50 lungi dal mettere in questione la Costituzione appena instaurata, diagnosticò una profonda crisi di civiltà che riguardava l’intero sistema mondiale nelle pari responsabilità dei due sottosistemi, capitalista e sovietico, prevedendo con lucidità il precipitare progressivo degli ordinamenti nella tragica situazione in cui oggi sono caduti.

Il presidente del Consiglio ha ironizzato nella sua replica alla Camera sulla “Costituzione più bella del mondo” per giustificarne il superamento; che fosse una bella Costituzione è stato finora un parere unanime; si può dire piuttosto che non ce la meritavamo, se addirittura i principali promotori della svolta sono stati i due magistrati costituzionali che avevano il compito di garantirla. Ha cominciato il presidente Cossiga con il picconare e il presidente Napolitano che l’ha data da rottamare come Renzi ha rivendicato a suo favore. La vicenda italiana dimostra purtroppo che in questi cinquanta anni le società si sono imbarbarite sicché costituzioni come quelle che erano state pensate per le società, uscite dalla tragedia della II guerra mondiale, non sono più atte a reggere un corso storico dominato dal predominio della ricchezza dell’esclusione e del denaro, come per prima aveva diagnosticato la Banca d’affari americana JP Morgan. Ma proprio questo scarto tra i valori e gli obiettivi della Costituzione e il suo inadempimento avrebbe dovuto consigliare di mantenerla almeno come un  traguardo alto da mantenere, come un “non ancora” da raggiungere e come prova del fatto che società giuste con poteri democratici e pluralistici ad esse conformi sono state pensate e sono possibili.

Questa è la ragione per cui nella battaglia referendaria si dovrà fare ogni sforzo perchè la Costituzione di De Gasperi, Moro, Togliatti, Dossetti, La Pira, Lelio Basso, Calamandrei, Meuccio Ruini, non vada perduta.